sabato 15 luglio 2017

IAN CURTIS, IL GENIO OLTRE IL DOLORE


Ian Curtis al microfono, durante un concerto
Uso questa ricorrenza del sessantunesimo anniversario della nascita di Ian Curtis per poter parlare di uno tra i cantanti più importanti di sempre. E di un idolo personale, d'altronde.
La storia di Ian Curtis credo che ormai la sappiano tutti: è proprio per la sua storia, o meglio per la fine della sua storia, che è diventato un simbolo cult oserei dire quasi di massa (al pari di un Morrison, di un Iggy Pop, o magari di un Lennon) per le generazioni successive. Ha aiutato nell'intento la copertina di Unknown Pleasures, primo disco dei Joy Division, ma questa è un'altra faccenda.
Permettetemi di liquidare subito i tragici riferimenti biografici: il cantante, frontman e paroliere della storica band di Manchester si tolse la vita a soli 23 anni impiccandosi. Perché? Soffriva di per sé di quella cinica malinconia che è per molte persone un mood di fondo sin dall'alba dei tempi, in più era epilettico (e tra i '70 e gli '80 l'epilessia veniva curata con dei farmaci che più che bene facevano male), aveva una vita di marito e di padre frustrante, e in tutto questo doveva badare all'amante, al gruppo, alle canzoni, ai concerti estenuanti sino a notte fonda, e al lavoro il mattino presto. Troppi Ian a cui pensare, troppo difficili da ricongiungere o da essere contenuti in un'unica coscienza. Sì, la vita a volte è davvero bastarda.

L'iconico scatto di Anton Corbijn
Ma al di là di tutto questo, perché bisogna gioire se la figura di Ian Curtis (e dei Joy Division tutti) è diventata iconica, evocativa, imprescindibile in tutto il mondo alternativo e non solo?
Perché, alcuni ancora non lo sanno, era un fottuto genio. Un artista unico.
La voce? Baritonale, profonda, intensa e a tratti strascicata. Un Jim Morrison in veste dark/new wave, un cantante eccezionale che trasforma le parole in leggi universali grazie a un microfono. Strettamente correlata è la sua presenza scenica. Un ragazzo alto, pallido, con occhi di ghiaccio profondi e magnetici che balla danze tribali e convulse come le sue stesse crisi epilettiche: una visione capace di catturare chiunque, destinata a fissarsi nei decenni.
Ce n'è già abbastanza per fare un frontman di musica rock coi fiocchi, ma non siamo ancora al punto. Ciò che rende Ian Curtis uno dei più grandi artisti del ventesimo secolo sono i suoi testi. Non semplici canzoni, ma lasciti letterari degni di un poeta contemporaneo. Ian abolì il canonico alternarsi di strofe, bridge e ritornelli per creare poesie ricche di figure retoriche, metafore, simboli fortemente evocativi e ripetizioni che si fissano nel cervello. Nei suoi versi, raccontava il suo dolore in maniera lucida e disillusa senza risparmiarsi sprazzi di genio e infinito tra le sue parole: grazie alle frasi perfette, all'intensità della voce e all'enorme potenza del sound del gruppo, il dolore narrato da Ian non è più suo. Diviene quello di un'intera generazione, un canto di universalità.

Io, sono troppo piccolo per rendere onore a quello che Ian Curtis era, a quello ha rappresentato negli anni e a ciò che ha rivoluzionato e scatenato nella sua brevissima carriera di musicista durata meno di cinque anni.
Ci sono in ballo cose più grandi di noi: emozioni, visioni, dolore, amore, poesia. Tutte quelle cose che, insomma, restano dopo che noi andiamo via.
Proprio com'è successo a Ian Curtis.

3 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  2. Riassunto ben fatto, anche chi non lo conosce se ne fa un idea, certo mancano tantissime informazioni, ma come
    riassunto è molto buono Bravo
    Ciao Marco

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie tante, Marco! Ho cercato più di trasmettere il mio amore per la sua arte che di narrarne la vita.

      Elimina