venerdì 28 luglio 2017

MUNICIPAL WASTE: RITORNO IN GRANDE STILE



Preparate un calderone, aggiungeteci birra, marijuana, feste, donne nude e capelloni, mescolate il tutto ed otterrete una ricetta sublime dal nome di Slime and Punishment.

I festaioli di Richmond sono tornati ed hanno portato con sé un carico di adrenalina da disperdere per il mondo. A cinque anni dal rilascio del loro ultimo The Fatal Feast i Municipal Waste ritornano in scena con Slime and Punishment, titolo duramente efficace che vede in formazione una new entry, il chitarrista Nick Poulos, collega di Ryan Waste nei Bat e nei Vulture.

Cosa aspettarsi da questo nuovo album? Beh la formula è sempre la stessa, sboccate da alcol e sedie dietro la schiena. Ascoltando ogni singolo pezzo ci si immagina già voli dal palco, stage diving, pogo violento e headbanging da rompersi il collo. Gli Waste sono dei maestri in questo genere di cose.
Il making of dell'album è stato un po' travagliato, sia per il prolungamento del tour di The Fatal Feast, sia per la loro meticolosità nello svolgere il proprio lavoro. Il gruppo iniziò a scrivere materiale capace di riempire un intero disco: non soddisfatti del risultato, hanno cestinato tutto e ricominciato da zero, prendendo gli spunti più efficaci dal lavoro buttato via. Nonostante ciò non hanno mollato e sono comunque riusciti a tirar fuori un lavoro degno di nota. 
Come al solito i brani sono brevi ma pungenti, con pezzi che vanno dai cinquanta secondi a non più di tre minuti.

L'album viene aperto da Breathe Grease, una bella scarica di adrenalina che ci fa ben sperare nell'andamento delle tracce successive. Ancora con Shrednecks, brano condito con blast beat da capogiro e la tipica sfuriata canora di Tony Foresta. Uno dei brani più memorabili è sicuramente la title track, dal tono un pò più old school e dal ritornello che vi martellerà il cervello.
Low Tolerance è probabilmente il punto più alto del disco, esecuzione decisamente thrash con parti armoniche che si sposano alla perfezione nell'agglomerato di riff devastanti e percussioni demoniache.

Il grande ritorno degli Waste ha reso felici migliaia di persone che aspettavano con ansia la risposta di uno dei gruppi migliori del genere. Ritorno in grande stile? Decisamente sì. I ragazzi si sono davvero impegnati, e come sempre gli sforzi danno i loro frutti. L'album è piaciuto alla critica ma soprattutto è piaciuto a me, è il perfetto connubio tra macello e... no, è solo macello, il che va benissimo.
Dunque, preparate birra e cuffie ed ascoltate questa chicca senza esclusione di colpi, sfogatevi ed abbattete i muri a testate!



mercoledì 26 luglio 2017

UZEDA live@ Le Macerie 25/07/2017



Dopo una serie di tappe in giro per l'Italia finalmente i catanesi Uzeda arrivano anche in Puglia nella bellissima location de Le Macerie a Molfetta (BA). In apertura i giovanissimi Oaks con il loro math rock/emo potentissimo dalle influenze caballeriane e i fantastici Sudoku Killer con il loro jazz rumorosissimo dalle tinte cupe. Gli Uzeda sono una delle band italiane più coraggiose di sempre, lo dimostra perfettamente la loro musica sempre in anticipo rispetto ai tempi soprattutto per un Paese come l'Italia, dove questo tipo di musica non ha mai riscosso forti consensi.
E dopo 30 anni di musica alle spalle gli Uzeda più in forma che mai salgono sul palco de Le Macerie per stordire e stupire i loro spettatori. Quello degli Uzeda è un sound possente, indecifrabile e magnetico. Le splendide linee di basso, in perfetta sintonia con un drumming forsennato ma allo stesso tempo incredibilmente sobrio, fanno da tappeto per splendida voce di Giovanna Cacciola.
Gli Uzeda triturano i propri strumenti come i migliori musicisti americani di quegli anni e i deliri dissonanti di Agostino Tilotta alla chitarra suonano per l'Italia come qualcosa di mai ascoltato prima, come qualcosa di alieno. Un live che difficilmente ci si scrollerà di dosso e che si spera avrà un seguito sulle prossime generazioni di musicisti italiani.
Lunga vita agli Uzeda!



sabato 22 luglio 2017

THE JOSHUA TREE TOUR: UNA TERAPIA AD EFFETTO IMMEDIATO


fonte immagine: pagina facebook ufficiale degli U2
A una settimana dal live all'Olimpico degli U2, data italiana del revival del The Joshua Tree Tour, noi del Musichiere vogliamo raccontarvi di questa esperienza fantastica quanto bizzarra. Sono stato al concerto, ore e ore di fila sotto al sole, con qualche colpo di acqua nebulizzata qua e là. Ci sono arrivato sotto antibiotici in cura da una brutta mononucleosi, e alla fine di questo live report capirete perché.

Chi non porta almeno un brano degli U2 nel cuore? Chi sotto le coperte, chi in viaggio, chi in momenti belli e chi in momenti tristi, è inevitabile. Gli U2 ripropongono il The Joshua Tree Tour del 1987, e appena vengono annunciate le due date italiane allo Stadio Olimpico è partita una caccia al biglietto di dimensioni astrali tanto da fare sold out entrambe le date. The Joshua Tree è un disco classificabile nella storia della musica come uno dei più prorompenti nonché impegnati, ragion per cui nonostante le mie pessime condizioni non ho potuto fare a meno di tenermi caro il biglietto e andare a piazzarmi lì dal mattino. 
Per questa occasione gli U2 hanno reclutato in apertura, o meglio come special guest, Noel Gallagher e i suoi High Flying Birds, tanto per aprire con il botto. E Mr. Noel Gallagher ha fatto un bel colpaccio quella sera del 15 luglio. La scenografia era un qualcosa di colossale con una raffigurazione del Joshua Tree che si ergeva su tutto il resto, una passerella che conduceva a un secondo e più piccolo palco il quale, con un certo spirito di osservazione, poteva essere l'ombra dello stesso Joshua Tree.

Il concerto si apre con un ingresso molto minimalista di Larry che sfila a luci soffuse sulla passerella, si siede alla seconda batteria e attacca con il drumming di Sunday Bloody Sunday. A lui segue The Edge con il riff di chitarra, e Adam e Bono entrano per ultimi incitando la folla che ormai era già un oceano di lacrime. Eseguono un primo mini set di alcuni brani esterni a The Joshua Tree, il cui momento più toccante è stato quando durante il finale di Bad Bono ha intonato Heroes di David Bowie: un'emozione profondissima; segue una Pride più bella del solito.
Alla fine di questo mini set, Bono e compagni si spostano sul palco vero e proprio sulle note di Where The Streets Have No Name. Comincia "l'atto B" (come definito dallo stesso Bono), e finalmente scopriamo a cosa serviva quella scenografia immensa: venivano proiettate immagini e video in prima persona, nel caso di Where The Streets Have No Name una strada che prosegue dritta. Sentirsi protagonisti della scena era inevitabile, e potrei continuare così per ogni brano, ma lo spazio è poco e c'è troppo da raccontare.
Durante Ultra Violet sono state proiettate immagini di donne che nella storia hanno cambiato qualcosa o che semplicemente si sono impegnate a farlo (le femministe, quelle vere), e Bullet the Blue Sky è stato un vero trip. Nel corso del concerto, Bono e compagni ci hanno sbattuti in giro per il mondo con proiezioni spettacolari. Altro tocco di classe, la voce di Luciano Pavarotti che echeggia in Miss Sarajevo: in questo caso sono state proiettate scene di vita quotidiana nei paesi in guerra. Il concerto si è spinto nettamente oltre l'impegno sociale del frontman, e durante brani come With Or Without You, I Still Haven't Found What I'm Looking For, Vertigo e Beautiful Day io ho personalmente chiuso gli occhi e cantato a squarciagola e saltellato con tutti: mi sono lasciato andare allo spirito dionisiaco. L'ultimo successo mondiale della band eseguito è stata la cara vecchia One, uno di quei brani che seppur commerciale, suonato dal vivo fa venire i brividi.

Quale è stato il prezzo da pagare per vedere una delle più grandi band al mondo? Oltre al costo del biglietto, ore di fila nonostante mi reggessi a malapena in piedi: giuro che, uscito dallo stadio, mi sono sentito rinato e con tutte le forze per rifarlo il giorno dopo (se solo ne avessi avuto la possibilità).
Cari lettori, fatto sta che pochi giorni dopo sono andato a rivisitarmi dal medico che mi aveva vietato categoricamente di andare al concerto ed ero completamente guarito. Scegliete la musica dal vivo al posto dei rave party, la musica è magica e terapeutica, e le frequenze della chitarra di The Edge hanno effetti benefici.
Meditate, pace!  

lunedì 17 luglio 2017

PETER PRINCIPLE  R.I.P.





Anche Peter ci ha lasciati.
Dopo Bruce Geduldig (che si occupava delle proiezioni durante i loro concerti) i Tuxedomoon perdono un altro tassello fondamentale, una colonna portante del loro storico sound ovvero il bassista Peter Principle. Con i suoi riff claustrofobici e glaciali Peter ha permesso ai Tuxedomoon di diventare una della band meno convenzionali e più all'avanguardia di sempre. 59 to 1, Jinx, Some Guys ecc... sono solo alcuni dei brani dove Peter ha saputo dare la sua impronta costruendo un sound imponente ma che allo stesso tempo nascondeva un'anima punk.
Il free jazz, la musica da camera, l'elettronica, il punk... i Tuxedomoon sono tutto questo in una perfetta alchimia di suoni e immagini che dal vivo abbagliano lo spettatore catapultandolo in uno stato di trance.

Ciao Peter, ci mancherai molto.

Tuxedomoon live@Vergato (BO)   08/06/2016

DEAFENING SILENCE, l'incontro con il giovane duo


La copertina di Over the Universe
Deafening Silence sono una nuova realtà musicale emergente di Canosa di Puglia. Il giovane duo ha pubblicato da poco il suo primo singolo completamente inedito, Over the Universe, ascoltabile su Spotify, iTunes, PlayMusic e tante altre piattaforme di streaming digitale.
Abbiamo incontrato Biagio Di Nicoli, il chitarrista del gruppo.



Chi sono i Deafening Silence? Raccontaci com'è nato questo progetto.

Deafening Silence è un duo composto da me, Biagio Di Nicoli, e Sabino Brisichella, entrambi 19enni. Questo progetto, nato all'inizio di quest'anno, si è sviluppato con dei presupposti ed un identità ben precisi che abbiamo voluto suggerire già dal nome: il "silenzio assordante", appunto, rimanda alla nostra formazione, ovvero il pianoforte (uno strumento più dolce e classico) e la chitarra elettrica (più dirompente e riempitiva). C'è da dire che questa esperienza rappresenta una totale novità per noi due, esattamente come volevamo che fosse. Innanzi tutto, nessuno di noi aveva mai suonato in una line-up composta da due sole persone: abbiamo scelto questo approccio perché è meno dispersivo rispetto a quello di un gruppo più numeroso, c'è più comodità a livello di organizzazione e più coesione dal punto di vista compositivo. E poi, abbiamo deciso di sperimentare l'unione del pianoforte e della chitarra come unici strumenti perché crediamo sia una cosa di per sé atipica. Vogliamo in un certo senso essere distinguibili, cosa che abbiamo cercato di fare anche con il sound del nostro pezzo.


A proposito del vostro pezzo: parlaci dello stile musicale del duo, e magari di qualche influenza.


Over the Universe è stato registrato e pubblicato da poco, ed è di fatti il nostro primo inedito. Lo abbiamo composto all'inizio dell'estate, e nel farlo abbiamo cercato di conciliare i nostri due stili piuttosto diversi tra loro. Il background di Sabino è essenzialmente quello di un pianista di musica classica, mentre io ho quasi sempre suonato in gruppi rock, mettiamola così: lo stile soft e minimalista della nostra canzone ci è sembrato il giusto compromesso tra le nostre diverse sonorità. La traccia è cantata da Sabino, mentre io ho curato le seconde voci, su cui ho post-prodotto un leggero effetto d'eco. Dal punto di vista del canto appunto, il brano è qualcosa di piuttosto sperimentale per noi, infatti prima d'ora ci eravamo sempre concentrati solo sul suonare i nostri strumenti: Sabino ha preso lezioni di canto in quest'ultimo periodo (anch'io ho cominciato a farlo di recente), e ha da poco avviato un suo progetto solista come cantante e pianista. Ci siamo cimentati in qualcosa di insolito, insomma, una cosa che secondo me è importante fare. Se ci si vuole definire musicisti in toto, è dannoso restare fermi sul proprio genere: la vedo anche come una cosa egoistica, che ti impedisce di esprimere una parte di te che può nascondere una potenzialità inaspettata.
Per quanto riguarda il testo, invece, abbiamo cercato di proporre qualcosa di originale: non ci andava proprio di scrivere le solite cose piene di sentimentalismo o troppo emotive per così dire, e abbiamo scelto di concentrarci su sensazioni più astratte, legate agli elementi naturali (ci sono riferimenti alla pioggia, ad esempio, o al vento). A livello più strettamente sonoro, nel comporre il mio assolo di chitarra ho cercato di creare qualcosa di più tenue e soffuso rispetto al mio stile precedente, che è sempre stato più hard rispetto a questo. Prima d'ora, ero profondamente legato ad artisti come i Van Halen o Malmsteen, mentre adesso esploro ascolti più soft, più calmi.



Al di là del duo Deafening Silence, cosa fai come musicista? Raccontaci anche qualche tua esperienza precedente.

Come dicevo, ho suonato musica rock in vari gruppi come chitarrista, ma ho anche provato a fare varie esperienze per conto mio, perlopiù in vari contest. Tra i più importanti, mi sono classificato secondo al Tour Music Fest a Roma, occasione in cui ho incontrato Mogol, che mi ha fatto i complimenti e a cui ho stretto la mano (un emozione grandissima!); ho preso parte alle preselezioni di Italia's Got Talent da cui sono stato scartato; e sono stato finalista anche in un contest locale (La Creatività Musicale) che mi ha dato la possibilità di far ascoltare una mia canzone a Marco Trentacoste, il produttore di Giusy Ferreri e Francesco Sarcina. A proposito del cantante de Le Vibrazioni, mi è capitato di passare con lui le feste di Natale e Capodanno per due anni di fila tramite mio zio: ho avuto modo di parlare con lui e anche di suonarci un po' insieme, una cosa fantastica.
Più recentemente, invece, mi sto cimentando nelle prime esperienze come produttore. A nome mio ho pubblicato un brano di nome Sunset, che potremmo definire un pezzo Soft House. Sono partito dalla mia chitarra per poi creare la base, i bassi, i vari suoni e tutto quanto. Ho già pubblicato il brano su YouTube, anche se mi piacerebbe poter inserire nella versione finale una voce femminile, che addolcisca e riempia il tutto allo stesso tempo. Mi sono spinto anche in territori ancora più lontani dei miei componendo la musica di un brano su cui canterà il gruppo rap che mi ha richiesto questa base.
Ma al di là di questo, è cominciato tutto col sacrificio, ovvero esercitandomi dalle sei alle otto ore al giorno senza uscire spesso di casa. Sono fortunato a non aver mai preso una tendinite, insomma.


Quali sono i tuoi progetti futuri come solista e come membro dei Deafening Silence?

Per il duo, stiamo componendo un nuovo pezzo che ci sta piacendo molto e che pubblicheremo nei prossimi mesi.
Per quanto riguarda me, invece, la cosa più imminente è un viaggio a Malta che durerà un mese: inutile dire che porterò con me la chitarra e l'amplificatore per proporre la mia musica anche lì, magari per strada, tutto molto do-it-yourself. Dopodiché, porterò avanti le mie produzioni personali: ho composto una traccia che non ho ancora pubblicato, una cosa molto diversa da Sunset, più rock e pesante. In questo caso mi piacerebbe molto lavorare con un vocalist che canti in maniera graffiante, diciamo così, più heavy.
Il mio obiettivo finale al momento è quello di trasferirmi a Milano dopo il diploma per frequentare la Rock Guitar Academy e poter finalmente essere un musicista di professione. La voglia di esprimermi al meglio e poter sfondare nella musica è davvero tanta, e ci metterò tutto il mio impegno e la mia passione.


Voi lettori, augurate buona fortuna a Biagio Di Nicoli e ai Deafening Silence perché i sogni dei giovani sono forse la cosa più importante al mondo.
Potete ascoltare qui Over the Universe:

sabato 15 luglio 2017

IAN CURTIS, IL GENIO OLTRE IL DOLORE


Ian Curtis al microfono, durante un concerto
Uso questa ricorrenza del sessantunesimo anniversario della nascita di Ian Curtis per poter parlare di uno tra i cantanti più importanti di sempre. E di un idolo personale, d'altronde.
La storia di Ian Curtis credo che ormai la sappiano tutti: è proprio per la sua storia, o meglio per la fine della sua storia, che è diventato un simbolo cult oserei dire quasi di massa (al pari di un Morrison, di un Iggy Pop, o magari di un Lennon) per le generazioni successive. Ha aiutato nell'intento la copertina di Unknown Pleasures, primo disco dei Joy Division, ma questa è un'altra faccenda.
Permettetemi di liquidare subito i tragici riferimenti biografici: il cantante, frontman e paroliere della storica band di Manchester si tolse la vita a soli 23 anni impiccandosi. Perché? Soffriva di per sé di quella cinica malinconia che è per molte persone un mood di fondo sin dall'alba dei tempi, in più era epilettico (e tra i '70 e gli '80 l'epilessia veniva curata con dei farmaci che più che bene facevano male), aveva una vita di marito e di padre frustrante, e in tutto questo doveva badare all'amante, al gruppo, alle canzoni, ai concerti estenuanti sino a notte fonda, e al lavoro il mattino presto. Troppi Ian a cui pensare, troppo difficili da ricongiungere o da essere contenuti in un'unica coscienza. Sì, la vita a volte è davvero bastarda.

L'iconico scatto di Anton Corbijn
Ma al di là di tutto questo, perché bisogna gioire se la figura di Ian Curtis (e dei Joy Division tutti) è diventata iconica, evocativa, imprescindibile in tutto il mondo alternativo e non solo?
Perché, alcuni ancora non lo sanno, era un fottuto genio. Un artista unico.
La voce? Baritonale, profonda, intensa e a tratti strascicata. Un Jim Morrison in veste dark/new wave, un cantante eccezionale che trasforma le parole in leggi universali grazie a un microfono. Strettamente correlata è la sua presenza scenica. Un ragazzo alto, pallido, con occhi di ghiaccio profondi e magnetici che balla danze tribali e convulse come le sue stesse crisi epilettiche: una visione capace di catturare chiunque, destinata a fissarsi nei decenni.
Ce n'è già abbastanza per fare un frontman di musica rock coi fiocchi, ma non siamo ancora al punto. Ciò che rende Ian Curtis uno dei più grandi artisti del ventesimo secolo sono i suoi testi. Non semplici canzoni, ma lasciti letterari degni di un poeta contemporaneo. Ian abolì il canonico alternarsi di strofe, bridge e ritornelli per creare poesie ricche di figure retoriche, metafore, simboli fortemente evocativi e ripetizioni che si fissano nel cervello. Nei suoi versi, raccontava il suo dolore in maniera lucida e disillusa senza risparmiarsi sprazzi di genio e infinito tra le sue parole: grazie alle frasi perfette, all'intensità della voce e all'enorme potenza del sound del gruppo, il dolore narrato da Ian non è più suo. Diviene quello di un'intera generazione, un canto di universalità.

Io, sono troppo piccolo per rendere onore a quello che Ian Curtis era, a quello ha rappresentato negli anni e a ciò che ha rivoluzionato e scatenato nella sua brevissima carriera di musicista durata meno di cinque anni.
Ci sono in ballo cose più grandi di noi: emozioni, visioni, dolore, amore, poesia. Tutte quelle cose che, insomma, restano dopo che noi andiamo via.
Proprio com'è successo a Ian Curtis.

venerdì 14 luglio 2017

CANNABIS CORPSE: FATTONI E CAPELLONI DALLA VIRGINIA


Dato l'imminente rilascio del loro ultimo pezzo, approfitto per parlarvi di un gruppo ironicamente particolare. Il gruppo in questione si chiama Cannabis Corpse, progetto nato nel 2006 a Richmond, Virginia, dalla mente di Philip "Landphil" Hallbassista dei punk-thrasher Municipal Waste.

Come avrete già capito, il tema principale della formazione Death metal è proprio la marijuana, quasi parodizzando altri gruppi facenti parte della scena Death, infatti andando a spulciare nella loro discografia spuntano dischi come The Weeding (riferimento a The Bleeding dei Cannibal Corpse), o anche l'ultimo loro lavoro Left Hand Pass, chiara citazione a Left Hand Path degli svedesi Entombed.

Le sonorità del gruppo sono violente e cupe, classiche del movimento brutal death metal, ciò non vuol dire però che il gruppo sprofondi nel banale anzi, per chi ha un po' di familiarità con il genere gradirà sicuramente la linea compositiva della band, ricca di blast beat atroci, riff calzanti ben definiti ed un efficace canto gutturale che rende il tutto ancora più efficiente.

Con un buon ascolto si può notare la grossa familiarità con i Cannibal Corpse, gruppo dal quale hanno assorbito maggiormente nell'influenza.
Da elogiare sicuramente è anche l'utilizzo del basso, perfetto, chiaro, ereditato dai Municipal Waste e reso cento volte più accattivante.

I Cannabis Corpse sono in continua evoluzione e stanno guadagnando sempre più la stima dei colleghi nella scena metal, vantando anche una collaborazione con Randy Blythe, devastante voce dei Lamb of God. Vedremo cosa aspettarci dal loro ultimo lavoro, intanto vi rimandiamo al loro pezzo appena rilasciato, dal titolo Chronic Breed, davvero forte: https://www.youtube.com/watch?v=HX1I6d40wbg

Che dire, se amate marijuana e metal questo è il gruppo che fa per voi. Volete farvi due risate? Stessa cosa. Ascoltateli mentre vi godete un bel joint, ma non fumate troppo. No dai, fumate a volontà.

Un abbraccio.


giovedì 13 luglio 2017

MUSIC FOR FILMS




Capita a tutti di svegliarsi con un brano nella testa o meglio ancora con un brano che (vuoi per accostamento cinematografico o per qualcos'altro) collega la nostra mente a delle immagini o a qualcos'altro. Oggi il mio cervello ha deciso di farmi tornare in mente un film che non vedo da troppo tempo. Ma la cosa curiosa è che prima ancora di pensare al film il mio cervello è partito dalla splendida colonna sonora di Neil Young per poi riportarmi alle immagini di Dead Man.
Può la musica avere la meglio durante la visione di un film? O meglio, può una colonna sonora rimanere impressa più del film stesso? Ma soprattutto, quando avviene questo?
Il cinema ha sempre collaborato con la musica sin dagli albori, ma con l'avvento del sonoro le cose sono cambiate. Nascono i primi sodalizi artistici tra registi e compositori e la musica comincia ad essere parte integrante della pellicola. La musica diventa così un elemento fondamentale per il cinema (impossibile immaginare un film di Sergio Leone senza le musiche di Morricone o una qualsiasi sfilata felliniana senza le musiche di Rota), di conseguenza quindi per lo spettatore è diventato praticamente impossibile immaginare determinate situazioni cinematografiche o determinati clichés senza l'ausilio della musica.


Ghost Dog: The Way of the Samurai, 1999, Jim Jarmusch
Era impossibile non citare almeno un film di Jarmusch, considerato che il mio discorso ha preso forma grazie a lui. Il rapporto che il cinema di Jarmusch ha con la musica è davvero intenso, e con questo Ghost Dog: The Way of the Samurai il regista americano realizza probabilmente il suo film migliore, soprattutto grazie alle splendide musiche di RZA che permettono allo spettatore di comprendere ed entrare in un universo oscuro.


La Cicatrice Intérieure, 1972, Philippe Garrel
Parlare di Garrel non è mai semplice, soprattutto se prendiamo in considerazione il suo La Cicatrice Intérieure interpretato dalla fantastica Nico. Siamo di fronte ad un film sperimentale, che dialoga con lo spettatore attraverso immagini, musica (tratta da Desertshore della stessa Nico), ma soprattutto simboli. Il film di Garrel sembrerebbe essere il prolungamento dell'opera di Nico, una sorta di rappresentazione degli umori e dei sentimenti presenti nel suo disco. Non siamo di fronte ad un film di facile fruizione, ma le musiche di Nico a metà strada tra il neoclassico e il surreale sono il perfetto veicolo per lo sguardo onirico del regista francese.


Identificazione di una donna, 1982, Michelangelo Antonioni
Il canto del cigno del maestro del cinema italiano vede la collaborazione con un mostro sacro della scena musicale inglese degli anni '80. Stiamo parlando di John Foxx (ex voce degli Ultravox) che nel 1982 lavorò alla colonna sonora del film Identificazione di una donna, un prodotto non perfetto ma che grazie allo splendido commento musicale (Japan, Tangerine Dream) acquista ancora più valore e fascino.


Hana-bi, 1997, Takeshi Kitano
Il compositore giapponese Joe Hisaishi è noto in Occidente soprattutto per aver collaborato a lungo con lo Studio Ghibli, ma pochi in realtà lo conoscono per le sue opere curate per il regista Takeshi Kitano. Le musiche di Hisaishi si incastrano alla perfezione tra i lunghi silenzi delle scene di Kitano e appaiono come unico monito alla vita per i personaggi dei suoi film. Musiche prevalentemente tristi ma allo stesso tempo dolci conducono lo spettatore a riflessioni profonde sulla vita.

lunedì 10 luglio 2017

Dieci canzoni d'afa



Credo che oggi sia il giorno più caldo dell'estate. Fino ad ora e fino alla sua fine, spero. Troppo caldo per uscire, ma troppa noia per non farlo. La soluzione è ascoltare qualche canzone, magari dopo aver acceso il ventilatore per non sudare dalle sopracciglia. Perché sì, alcune canzoni colgono alla perfezione l'essenza del lato noioso, afoso, immobile e opprimente dell'estate, e si sa che la musica cura qualsiasi affaticamento psicofisico.

Overcome, Tricky, 1995
Un sussurro affannoso, un atmosfera ambient che sa proprio di deliquio, ecco l'ipnosi di fondo del sole battente. L'opening track di Maxinquaye, primo album del guru del trip-hop Tricky è la sintesi perfetta dell'afa. Da ascoltare a occhi chiusi, quando non vedi il nero ma l'arancione del sole sotto le palpebre.

Un giorno dopo l'altro, Luigi Tenco, 1966
La routine dell'estate che si trascina passo dopo passo e giorno dopo giorno, che sia fatta di sessioni d'esame o di feste sino all'alba, è un sentimento comune a tutti. E tipicamente tenchiano, come si sente in questa famosa ed indispensabile ballata malinconica del tenebroso cantautore italiano.

Jungla, Reggae National Tickets, 1996
E in questi casi, la città diventa una giungla. Immaginate girare nei mercati affollati al mattino: sono felice di non conoscere questa sensazione. La si immagina in questo pezzo degli italiani Reggae National Tickets, con l'attuale Alborosie al microfono che allora registrava il suo primo disco a soli 19 anni. Un caleidoscopio esotico di dub e chitarre seducenti.

Sun is shining, Bob Marley & the Wailers, 1978
Restando in territorio reggae, è iconico questo brano del profeta Bob Marley contenuto nel suo album Kaya. La canzone in realtà risale agli anni storici con i primi Wailers, e di quegli anni conserva il sapore roots e giovanile: basta ascoltare per essere catapultati in una spiaggia giamaicana, che afa o no, è comunque bella.

Paranoia, Chance the rapper, 2013
Ce n'è anche per il rap. Il canadese Chance the rapper, col suo stile metà hip hop metà psichedelico, ci regala nel suo secondo album un vero trip oscuro, la hidden track Paranoia. Qui c'è da aver paura: "Everybody dies in the summer/So pray to God for a little more spring".

Le vacanze dell'ottantatré, Baustelle, 2000
Che ne dice il rock italiano più recente di tutto questo? I Baustelle, ora impegnati nel (nemmeno a farlo apposta) L'estate, l'amore e la violenza tour, inserivano nel loro primo album un gran bel pezzo sospeso tra elettronica retrò e chitarre rock. Il testo narra di un amore mai sbocciato, come tutte le cose che nascono in estate e muoiono prima dell'autunno.

Sotto 'o sole, Pino Daniele, 1980
A proposito della musica italiana: fondendo blues e prog, il mitico Pino Daniele racchiude nella traccia finale del suo album capolavoro Nero a metà l'umore fatto musica di quando davvero si ha preso troppo sole e la testa pesa.

June is finally here, Don Caballero, 1998
Torniamo a parlarvi degli americani Don Caballero, inseriti nella nostra lista dei dischi esclusi degli anni '90. Con il loro singolare stile (mathrock o post-rock che dirsivoglia), picchiano sugli strumenti o li accarezzano proprio come fanno su di noi i cambi di stagione o di temperatura. Il pezzo va ascoltato in qualsiasi momento dell'anno.

Take me to the other side, Spacemen 3, 1987
Qui c'è poco da dire. La voce ed il sintetizzatore esprimono a pieno l'estate che sta vivendo il sottoscritto negli ultimi giorni. Approfittatene per conoscere la band che ha iniziato il movimento shoegaze.

Indian summer, The Doors, 1967
Con questa pregevole bonus track del loro album d'esordio, i Doors sintetizzano tutti gli umori estivi di cui ho parlato sinora in pochissimi minuti. Un sogno, niente da aggiungere.

venerdì 7 luglio 2017

GLI ESCLUSI


Quando si parla degli anni ’90 in ambito musicale e in particolare dei vari generi/movimenti che si sono succeduti nel decennio le prime etichette cui più spesso si sente parlare sono sicuramente il Grunge, il Black Metal (Nato durante gli ’80 ma consolidatosi durante i ’90), il Britpop, un certo tipo di Elettronica (Per intenderci: Daft Punk, Underworld, Prodigy…) e il Trip-Hop (portato al successo grazie a band come Portishead e Massive Attack).
Come in ogni decennio musicale, a prevalere ma soprattutto a rimanere nell’immaginario collettivo sono prevalentemente i generi e gli artisti che più hanno venduto (Oasis, Nirvana, Blur, Take That…). Ma spesso dietro un sipario costellato da successi e vendite si nascondono una miriade di band che durante gli anni ’90 ebbero pochissima visibilità e che solo ora grazie all’avvento della musica digitale e di internet è stato possibile riscoprire e rivalutare. Mi piacerebbe quindi proporvi qui di seguito non una classifica ma semplicemente una manciata di dischi usciti negli anni ‘90 che, secondo me, hanno saputo muoversi in una direzione completamente diversa rispetto a quella proposta dalle industrie discografiche.


Frigid Stars, Codeine, 1990

Per fare rock non serve per forza suonare forte o veloce.
La più grande lezione che ci insegnano i newyorkesi Codeine è questa, il loro è un rock completamente rallentato e dimesso ma che quando vuole sa essere anche aggressivo e rabbioso. Manifesto di una intera generazione, quello dei Codeine è solo l’inizio di una serie infinita di band che sceglieranno la via del “rock al rallentatore”. New Year’s è, per chi scrive, uno dei 5 brani più belli degli anni ’90.



WhatFunLifeWas, Bedhead, 1994

Il titolo parla da sé.
Completamente dimenticati dal mondo, i texani Bedhead vennero fuori con questo fragoroso disco nel ’94 e riuscirono sapientemente ad unire psichedelia, suoni assordanti e lentezza, il tutto però filtrato dal loro modo di suonare a metà tra il dimesso e lo svogliato.



2, The Black Heart Procession, 1999

I californiani Black Heart Procession sin dal loro bellissimo esordio si sono dimostrati maestri nel comporre brani a metà tra il malinconico e il funereo, ma questo 2 è sicuramente il loro lavoro più oscuro, romantico e disincantato dove a fare da padrone sono fisarmoniche e organetti che sembrano provenire da un’altra epoca. Particolarmente consigliato agli amanti di Tom Waits e Nick Cave.


The Problem with Me, Seam, 1993

Provenienti da Chicago, i Seam assimilarono alla perfezione la lezione dei loro predecessori per poi creare la loro parabola musicale all’insegna della lentezza. I loro brani sono in continua evoluzione, lo dimostra un brano come Bunch, dove un semplicissimo fraseggio di chitarra si trasforma in un’esplosione sonora che ha ormai assimilato l’insofferenza dei giovani cantata a squarciagola dall’Hardcore punk.





What Burns Never Returns, Don Caballero, 1998

Originari di Pittsburgh, i Don Caballero con la loro musica strumentale sono stati sicuramente una delle parabole più originali degli anni ’90. I loro dischi viaggiano costantemente su una sottile linea che li divide dal caos più totale. Il loro è un mix perfetto di dissonanze e ritmiche epilettiche ma allo stesso tempo i loro brani sembrano incredibilmente orecchiabili.






Spectrum, Sonic Boom, 1990

Di ritorno dagli Spacemen 3 il grande Peter Kember comincia la sua carriera solista a nome Sonic Boom con un disco che mescola alla perfezione, ancora una volta, la lezione “velvettiana” alle atmosfere eteree tanto care al duo Kember-Pierce. Il risultato è un disco catartico, che abbatte l’ascoltatore e che lo trasporta in un altro universo, provare per credere.





Down Colorful Hill, Red House Painters, 1992

Con questo disco la 4AD inserisce un altro capolavoro nel proprio catalogo, ma soprattutto ci regala una delle menti musicali più importanti di tutti i tempi: Mark Kozelek. Sin dalla copertina il mood del disco è abbastanza chiaro. Il sound dei Painters è sottile ma allo stesso tempo solenne come una marcia funebre. Kozelek e soci fanno musica con poco, ma quello che colpisce è come la musica sia il perfetto veicolo delle parole di Kozelek, le parole vanno di pari passo con la musica fino ad arrivare all’ultimo brano dove è umanamente impossibile non emozionarsi.






Hex, Bark Psychosis, 1994

Gli inglesi Bark Psychosis sono senza ombra di dubbio i discendenti più diretti dei Talk Talk di fine anni '80. Sutton e soci seppero cogliere le atmosfere di Spirit of Eden riuscendo però a creare qualcosa di ancora più personale e intimo. Se i Talk Talk mantenevano delle dinamiche basse per poi esplodere, i Bark Psychosis portano il tutto su un tono prettamente da camera. Hex è un disco delicatissimo ma che nel profondo nasconde arrangiamenti da paura e rimandi che spaziano dalla psichedelia al jazz. Raramente ho visto una copertina più bella di questa.


Exploded Drawing, Polvo, 1996

Ancora Stati Uniti, precisamente Nord Carolina. Quelli che all'inizio potevano sembrare un semplice (nemmeno tanto) verso ai Sonic Youth si rivelano essere una delle band più innovative degli anni '90. Praticamente impossibili da etichettare i Polvo mescolarono la furia hardcore degli anni '80 a diversi generi quali il blues e il country, il tutto però filtrato da un sound astratto e disordinato. 

giovedì 6 luglio 2017

LO STRANO LEGAME TRA BOB MARLEY E I BEATLES


I Beatles nel '66
Cinquantun'anni or sono, nel 1966, quattro giovani liverpooliani considerati Favolosi erano sul punto di cambiare tutto.
Un anno prima era cominciata la loro svolta sonora con Rubber Soul, un prodotto nel quale i Beatles cominciano ad andare oltre le canzonette d'amore (che per carità, erano bellissime) per cominciare a parlare di cose un tantino più reali e per esplorare il mondo dei violini e dei sitar. Ora, nel '66 appunto, i caschetti per antonomasia stanno per sparire e lasciar spazio a dei baffi. Manca ancora un passo prima del balzo, ed è Revolver. Un capolavoro, tra i dischi che amo alla follia, un album che regala canzoni uniche, frutto di momento un irripetibile nella vita dei quattro musicisti.
Ma come possono i Beatles, ricchissimi e adorati da tutto il mondo, essere in questo frangente collegati a Bob Marley? La foto (che ormai conoscono in molti) scattata a metà degli anni '70 in cui Marley stringe la mano a George Harrison non c'entra. Si tratta di altro.

fonte immagine: rocknrolldetective
Nel 1966, mentre Revolver scalava le classifiche (come tutti i dischi dei Beatles), Bob Marley era negli Stati Uniti, gli stessi che di lì a poco ripudieranno i Fab Four per la famosa dissacrazione di John Lennon nei confronti di Gesù Cristo (gesto ironico ed eroico). Il profeta del reggae visse qualche anno negli States lavorando in fabbrica la notte, e non era ancora il profeta del reggae. Qualche anno dopo avrebbe anche lui vissuto un momento di svolta, quando i Wailers sbarcarono in Inghilterra nel '73.
Ma nel '66, quando Bob Marley era ancora una spugna che assorbiva quelle influenze che lo avrebbero reso ciò che tuttora è, il cugino di sua moglie Rita era solito andare spesso a trovarli per suonare con Bob e ascoltare le sue nuove canzoni. Una di quelle volte, gli fa ascoltare la seconda traccia del lato A di un LP uscito da poco. Si tratta di Eleanor Rigby, contenuta appunto in Revolver. Marley resta magnetizzato dal brano, uno strano pezzo a base di violini e malinconia: qualcosa di sconosciuto per il suo mondo musicale. Quella storia di Eleanor Rigby, fatta di sofferenza, morte e solitudine, lo colpisce a tal punto che Marley zittisce in malo modo la moglie per la prima volta nella sua vita. Perché parlando, stava disturbando il suo ascolto.
Il cantante giamaicano rimase stregato e penso e ripensò a Eleanor Rigby per parecchi giorni.

Sono abituato a tirar fuori frasi conclusive a questo punto, ma ora mi è difficile.
Semplicemente, quello che lega Bob Marley e i Beatles (tra i massimi esponenti della storia della musica) è un aneddoto affascinante, una di quelle storie che mi colpiscono e mi restano impresse nella memoria.
Perlomeno, spero di non avervi annoiato.

Bob Marley (più o meno) nel '66

martedì 4 luglio 2017

LE VITTORIE DELLA NEW WAVE ITALIANA


I Diaframma, da sinistra: Gianni Cicchi (batteria), Federico Fiumani (chitarra), Leandro Cicchi (basso), Miro Sassolini (voce)
 Un bel giorno di circa due anni e mezzo fa, decisi di esplorare in maniera un po' più sistematica la musica rock italiana. E dissi, "Wow, ascoltiamo i Litfiba, sono un nome molto famoso!", e cominciai ovviamente dal primo album di Pelù e soci, il mitico Desaparecido pubblicato nel 1985. Da allora, la mia vita musicale è cambiata. Perché ho scoperto che il genere di quell'album era classificato come new wave, e ho scoperto che moltissimi gruppi italiani l'avevano suonata insieme ai Litfiba. E ho scoperto che prima di loro lo avevano fatto molti artisti inglesi e americani, e soprattutto che stavo interagendo con quella che era stata una irripetibile e definitiva rivoluzione della musica del Novecento.

I generi musicali ascritti a questo fenomeno sono tanti: post-punk, synth pop, dark, gothic, ma per comodità userò qui solo il termine new wave.
Dicevo, con la new wave ho scoperto gli anni '80, la libertà musicale e creativa, la realtà dell'epoca fatta di gavetta e locali, nuove proposte e idee audaci. E ne sono rimasto affascinato, colpito: e ascolto tuttora artisti di quell'ondata. Ma al di là dell'enciclopedico discorso che si può fare su cosa sia, quando e come sia nata la new wave, eccetera eccetera, parliamo di quel che è successo di conseguenza in Italia. Decine e decine di band, solisti, progetti all'avanguardia, freschi, giovanili, fighissimi sono nati tra la fine dei '70 e l'inizio degli '80, protraendosi sin quasi allo scadere del decennio. Dai Litfiba sopracitati agli amici e colleghi fiorentini Diaframma, autori del capolavoro italiano del genere, Siberia; dai CCCP di Giovanni Lindo Ferretti ai siciliani Denovo, i Moda, i Chrisma, i Confusional Quartet, i Gaznevada, Faust'o, Garbo e tantissimi altri nomi.
Questa generazione di ragazzi è stata, musicalmente parlando, eroica.
Se nei '60 il rock italiano era un coacervo di cover più o meno oneste, e nei '70 iniziavano a venir fuori i primi gruppi di alto livello che tagliavano il cordone ombelicale coi padrini anglosassoni, negli '80 dilagò la tendenza a formare gruppi liberamente espressivi. Perché per farlo non serviva cultura, o bell'aspetto: solo passione e originalità.
La scena rock italiana diventa cosa viva e indipendente proprio durante gli anni della new wave.

Di questa immensa e splendida ondata di artisti, oggigiorno non resta moltissimo. L'unico nome a diventare famoso sul serio (fuori dall'ambiente rock o underground) è stato quello dei Litfiba, che, morto il fenomeno, hanno cambiato approccio e stile. O se non famoso in termini di soldi e sold-out, è sopravvissuto il suono della parola "CCCP", indice di estremismo e trasgressione per i più. Oppure ci sono i Diaframma di Federico Fiumani, vero e proprio guerriero che ancora oggi suona nei locali senza major, senza hit parade, ma con tanta passione e tanti fedeli. Ma tra il grande pubblico, il riconoscimento nei confronti della new wave non è mai arrivato.

È arrivata però l'ispirazione per intere generazioni successive di musicisti italiani. È arrivato l'immenso lascito alla storia musicale del nostro paese. È arrivata l'arte, la voglia di esprimersi perché si è giovani e appassionati. Sono arrivati i dischi o le canzoni simbolo, i revival che durano tuttora e riempiono i locali. È arrivata la folgorazione per un ragazzo qualunque, che un giorno ha cominciato ad ascoltare ore ed ore di musica, sognando e decidendo di mettersi a scrivere.

La copertina dell'antologia New Wave Italiana 1980-1986

sabato 1 luglio 2017

MOGWAI, ecco la nuova "Party in the Dark"


La copertina di Party in the Dark
L'inizio di questo week-end mi ha riportato ai Mogwai. Esce il nuovo singolo, e scopro di aver mancato un eventone alla Fiera del Levante a Bari: questo giovedì, grazie ad Apulia Film Commission, è stato possibile guardare il documentario Atomic insieme allo stesso Stuart Braithwaite (chitarrista della band) e ballare con un dj-set cento per cento Mogwai.

Sì, ho perso l'occasione, e mi accontento di ascoltare Party in the Dark, pubblicato ieri sulle piattaforme di streaming musicale.
Il secondo singolo estratto da Every Country's Sun (nuovo album del gruppo in uscita a settembre) è un pezzo ben ritmato e solido, uno dei pochi brani dei Mogwai ad essere cantato nella sua interezza: a predominare è la sezione ritmica coadiuvata dalle onnipresenti tastiere ed impreziosita dalla chitarra elettrica.
Dopo il rilascio del primo singolo Coolverine (con relativo video), l'attesa nei confronti del nuovo album degli scozzesi è stata in parte spezzata ed in parte accresciuta dall'esibizione al Primavera Sound festival di Barcellona. Il 2 giugno, gli alfieri del post-rock hanno suonato in anteprima tutto Every Country's Sun, senza dire una parola e senza sprecare una nota in più.

Due mesi esatti ci separano dalla pubblicazione del nuovo disco, e tre e mezzo dalle date italiane dell'annesso tour promozionale: i Mogwai faranno tappa nella nostra penisola ad ottobre.
Il 27, all'Atlantico di Roma, anche il Musichiere urlerà e salterà un po' con tutti voi.

I Mogwai al Primavera Sound festival, Barcellona, 2/6